Dove cresce la biodiversità, la città vive

di Elena Granata

La varietà è alla base della resilienza sia in natura che nelle città. Sistemi omogenei, come le monoculture, sono fragili e più esposti al collasso. Anche l’ambiente urbano, concepito come neo-ecosistema, trae forza dalla diversità biologica, sociale e culturale. La storia del verde urbano dimostra come gli spazi siano il risultato di continui scambi e adattamenti. Favorire eterogeneità e connessioni ecologiche è fondamentale per garantire equilibrio, evoluzione e sostenibilità.

Siamo naturalmente attratti dall’ordine, dalle geometrie, dall’armonia delle forme. Non a caso abbiamo inventato il giardino all’italiana: un esercizio di stile e di raffinata capacità di piegare la natura all’estetica. Al contrario, tendiamo a diffidare del disordine, della varietà, dell’incolto.

Eppure, ogni giorno la natura ci insegna che senza disordine, senza biodiversità, senza un elevato tasso di varietà, nessun sistema è davvero forte né capace di resistere a cambiamenti improvvisi o shock radicali.

Un ambiente ricco di diversità è più resiliente: specie diverse svolgono ruoli differenti nell’ecosistema, alcune fissano l’azoto, altre migliorano il suolo, altre ancora controllano i parassiti. Se una specie viene colpita, le altre possono compensarne la funzione, mantenendo l’equilibrio complessivo. Inoltre, la varietà genetica consente alle popolazioni di adattarsi meglio ai cambiamenti ambientali, favorendo sopravvivenza ed evoluzione.

In ogni contesto, le monoculture impoveriscono i sistemi agricoli e i paesaggi: se tutto dipende da una sola specie, il rischio di collasso è molto più alto. La diversità, insomma, è una rete di sicurezza naturale che rende i sistemi più stabili, adattabili e meno vulnerabili.

Ma ciò che vale per la natura vale anche per le opere dell’uomo? 

Certamente. La ricchezza culturale delle città non nasce dalla purezza, dall’omogeneità o dalla somiglianza, ma dalla mescolanza, dalla pluralità, dalla biodiversità sociale. È proprio il molteplice a fondare il significato stesso di “ecosistema urbano” e a generare vita e rigenerazione continua.
È l’apertura e il grado di differenziazione di un sistema (economica, sociale, culturale) a determinarne la crescita. È la biodiversità a renderlo capace di reagire alle crisi, trasformarsi, evolvere.

Nessuna monocultura resiste al tempo. Nessuna città è sopravvissuta chiudendosi in sé stessa, sperando di restare uguale per sempre.

Così accade in natura, così accade nelle città.

Se guardiamo alla storia urbana, comprendiamo che città e natura non sono realtà contrapposte. Alain Finkielkraut, nel suo L’identità infelice, racconta la storia evolutiva dell’Europa attraverso l’immagine del platano, oggi simbolo dei parchi europei ma arrivato in Francia solo dopo il XVI secolo. Lo stesso vale per il cedro, l’acacia, l’eucalipto, l’ippocastano: naturalizzati francesi da meno di tre secoli. Ogni parco francese o italiano è un esperimento di acclimatazione, un innesto artificiale in un contesto non autoctono. Su ogni pianta potremmo scrivere: “pianta straniera”, proveniente dall’Africa, dall’Asia, dalle Americhe. Tutto nel nostro paesaggio è un prestito, un debito verso altri luoghi.

Guardare le città dalla prospettiva della natura cambia radicalmente lo sguardo. Come ricorda in questo numero Francesco Boscutti, le città, spesso considerate “deserti biologici” dominati da asfalto, cemento e inquinamento, sono in realtà habitat complessi, in grado di accogliere e far prosperare molte specie vegetali e animali. Giardini, parchi, aiuole, tetti, cortili, margini stradali, binari ferroviari, vecchi edifici: tutti questi microhabitat urbani ospitano una sorprendente ricchezza biologica. In questi spazi, piante spontanee, insetti, uccelli e piccoli mammiferi trovano risorse alimentari, microclimi favorevoli e l’assenza di predatori naturali.

Come ricorda Armando Gariboldi, delle 10.052 specie di uccelli oggi conosciute a livello mondiale, ben 2.041 (circa il 20%) vivono anche in ambienti urbani. Allo stesso modo, delle circa 279.107 specie di piante vascolari, 14.240 (il 5%) si trovano anche nelle città. In Italia, uno studio del WWF segnala che solo a Roma vivono oltre 1.649 specie di piante vascolari, circa 5.000 specie di insetti e più di 200 specie di vertebrati.

Le città sono vere e proprie neo-ecosistemi, con caratteristiche favorevoli alla biodiversità. L’assenza di caccia e di grandi predatori, l’alta densità di strutture artificiali, la capacità di trattenere calore e la disponibilità diffusa di risorse alimentari – anche sotto forma di rifiuti – creano condizioni favorevoli per molte specie, in tutte le stagioni.

La presenza e la densità della fauna urbana sembrano dipendere più da fattori strutturali – copertura del suolo, tipo e distribuzione della vegetazione, età e composizione dell’edificato – che da elementi esterni come il clima o la topografia.

Per questo motivo, la biodiversità urbana può essere potenziata attraverso una progettazione consapevole e normative adeguate, come dimostra l’esperienza inglese con l’introduzione della Biodiversity Net Gain (BNG). Come ci spiega Dusty Gedge, grazie a questa normativa gli spazi verdi hanno oggi un ruolo definito all’interno delle strategie nazionali per la biodiversità. La metrica BNG rappresenta un esempio pionieristico di traduzione dei principi ecologici – varietà arborea, diversità del substrato – in una politica concreta. Sebbene ancora unica per la sua specificità, i suoi principi fondamentali (varietà, eterogeneità, rilevanza ecologica) sono validi ovunque e dovrebbero essere estesi anche agli spazi verdi urbani a livello del suolo.

Aumentare la biodiversità rende le aree verdi più resilienti, riduce le infestazioni di insetti (sia autoctoni che alloctoni), contrasta lo sviluppo di patologie. È quindi essenziale adottare un approccio che tenga conto delle caratteristiche microclimatiche e delle esigenze ecologiche delle specie vegetali da introdurre. Anche in ambito urbano è possibile rafforzare le connessioni ecologiche, mettendo in rete tetti verdi, chiome arboree, aiuole e giardini, soprattutto in prossimità di quartieri storici o siti archeologici.

È fondamentale progettare vere e proprie reti verdi che connettano le aree urbanizzate con il territorio circostante, ad esempio attraverso corridoi ecologici naturali come le aste fluviali rinaturalizzate.

Come comunità insediata, anche noi umani possiamo fare la nostra parte per accrescere la biodiversità urbana. Architetti e paesaggisti, in particolare, possono offrire un contributo decisivo: lo dimostra Alessandra Aires con il progetto Un Ostello della Città (OPEN 011), gestito dalla Cooperativa DOC, un laboratorio di sperimentazione di quattro diverse soluzioni basate sulla natura (Nature-Based Solutions), che punta su risparmio e riciclo della risorsa idrica.
Sperimentazioni efficaci, progetti innovativi, legislazioni adeguate sono necessarie per rendere la biodiversità un tema strutturale delle nostre politiche locali.

Elena Granata

È professoressa di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile. È stata membro dello staff Sherpa, Presidenza del Consiglio dei Ministri, G7/ G20 (2020-21). Si occupa di città, di ambiente e di cambiamenti sociali. Tra i suoi libri: Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo (Giunti 2019) e Ecolove. Perché i nuovi ambientalisti non sanno ancora di esserlo (con F. de Lettera, Edizioni Ambiente 2022). Per Einaudi ha pubblicato Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo (2021) e Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura (2023). È cofondatrice di PlanetB.it, gruppo di ricerca sui temi ambientali e sociali.